mercoledì 15 febbraio 2012

In cammino - 6

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«Vorrei sapere notizie della mamma, di mia sorella Lalla, dei miei fratelli… » Fausto parlava, mangiando cucchiaiate di polenta, mentre lo zio Cesare, zoppicando casa-casa, già scuoteva la testa.
«Coi tedeschi in giro?» disse, alzando le braccia.
«Almeno per far sapere che sono vivo!» replicò Fausto.
«Tale’, meno persone sanno che sei vivo, meglio è.»
«Ma almeno devo fare qualcosa!» Fausto ingoiò un’altra cucchiaiata di polenta e fissò il piatto, poi lo zio, con gli occhi celesti.

«Senti, Faustino… c’è gente quassù, più a Nord, intendo, che forma bande per la resistenza contro i tedeschi.»
«Dici che mi piglierebbero?»
Lo zio Cesare si strinse nelle spalle e disse: «Si può provare.»
«Ora vai a letto, che sei stanco.» intervenne la zia.
Fausto annuì, ma in cuor suo stava scuotendo la testa. Stanco? Stanco d’esser chiuso in casa tutto il giorno e non potere uscire, sì!
Prima di addormentarsi, rivide l’immagine di un bambino serio, di quattro anni, coi riccioli biondi lunghi fino alle spalle: era al mare e sua madre lo teneva in braccio e sorrideva.

Fausto diede un lungo bacio alla ragazza, prima di staccarsi e tornare dagli altri. Da qualche giorno stava in un covo di montagna, con una banda partigiana aggregata alla divisione del capitano Neri. Di tedeschi se ne vedevano pochi; lui cucinava polenta e alla sera scendeva in paese con gli altri, per scherzare e ridere con le ragazze di Domaso.
L’autunno stava cedendo il passo all’inverno e su in montagna faceva freddo ed era già cominciata a cadere la neve.
Non gli andava particolarmente a genio l’essersi unito ai partigiani comunisti, ma sapeva che da qualche parte, si erano costituite anche milizie antifasciste di combattenti della Repubblica Sociale Italiana, fatta dagli sbandati della sua armata. Forse, presso di loro, avrebbe potuto tornare a combattere con i vecchi commilitoni, magari nella vecchia unità. Sarebbe stato ancora il sergente della prima squadra mortai, con Iaco, Salvo, Mimmo e l’enorme omonimo equino di quest’ultimo.
Mentre tornava alla sua marmitta di polenta, sentì qualcuno che lo chiamava. «Fausto!» una voce di donna. Si girò, corrugando la fronte e vide la ragazza correre in mezzo alle fronde di conifere.
«Fausto!» ripeté, come un mantra. Aveva l’espressione di un bambino deluso e si mordeva il labbro.
«Che c’è?» disse il sergente.
Lei lo guardò. «È morto lo zio Cesare.» disse.

Se n’era andato all’età di ottantaquattro anni, zoppicando così com’era vissuto. Lo zio Cesare di Domaso, vago ricordo nella mente del bambino palermitano che ne aveva sentito parlare e lo aveva visto qualche volta. Ora il soldato guardava la salma dell’uomo composta per il rito funerario e lacrime scorrevano sul suo viso da ragazzo.
Qualche palata di terra, una croce e un “amen” sulla tomba dello zio Cesare.
Alla sera, in casa l’aria era pesante come l’affusto di una mitragliatrice.
La zia gli tagliò una fetta di polenta, dura come un mattone. Fausto bevve un po’ di vino, posò il bicchiere.
«Senti, Faustino… » disse la zia. «Io sono sola ora che lo zio è morto e… i tedeschi… »
Il sergente sgranò gli occhi e un’espressione smarrita gli attraversò il viso, per cedere il passo a una rabbia temporalesca.
«Che fa, me ne devo andare?» domandò, pur sapendo la risposta.
La zia non disse niente, non fece niente, gli mise solo una mano sul cappotto mentre lui, raccolte le poche cose, apriva la porta.

continua

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