venerdì 21 dicembre 2012

La veridica historia di Marcozzo da Cremella

tercio spagnolo
Ho pensato di scrivere quest'articolo per pubblicare il primo capitolo dell'opera da me presentata al concorso Io Scrittore 2012 del Gruppo Editoriale Mauri e Spagnol.

Non ho vinto; sono stato eliminato al terzo turno.

Ma voglio copiarvi e incollarvi i giudizi - tutti anonimi - che i lettori mi hanno dato.

La storia si svolge in Brianza, nel 1525, poco prima della Battaglia di Pavia.

Il protagonista è un certo Alberico di Lissione, che si finge capitano di ventura e si trova a comandare una compagnia di Lanzichenecchi!

E' un'opera vecchia, del 2007, che ho restaurato proprio per presentarla al concorso.

A voi!


La veridica historia di Marcozzo da Cremella



I

Fra briganti, truffaldini e capitani di ventura, v’è la storia semiseria di Marcozzo da Cremella, sua guerresca signoria, ch’ebbe grande e trista fine alla Battaglia di Pavia.
Con strana preveggenza in una vasta e fredda stanza, un giovane in quel della Brianza, scriveva in lazzi e ghirigori, di duelli, tradimenti e scontri con la lanza.
Siamo in Seregno, contrada San Giovanni, in un Febbraio gelido e crudele.
Questo povero scrittore, spiantato e fannullone, si trova per caso nell’abbandonata magione d’un guerriero; brilla, per una torcia confitta, l’ambiente umido, spoglio e nero.

Seregno? (l'originale a questo link)

– Bene! –  fece l’uomo, deposti penna e calamaio  – I francesi avranno pane per i loro denti. Ahimè, peccato Marcozzo sia solo un eroe da cantastorie: regalerebbe un bel grattacapo al generale Lautrec!
L’uomo sorrise e si alzò. A grandi falcate percorse la stanza  – Perché ho scritto “la storia semiseria”? –  disse, dopo un poco.
Fuori la neve cadeva ed i boschi erano percorsi da rumori spettrali. Così che le campane della Chiesa paiono il cozzo di eserciti d’acciaio e l’abbaiare di un cane, si trasforma in ululato lupesco.
Erano tempi di battaglie, sangue e tradimenti, tempi dove il fratello uccide il fratello per un tozzo di pane; nulla di semiserio o divertente dunque, niente che possa suscitare risa.
 – Terminerà mai questo gelo? –  si lamentò l’uomo. Aveva fatto a pezzi l’ultimo sgabello della magione disabitata; ora non restava più niente, ne sedie, ne tavoli e cassapanche…ma che freddo!
 – Te non ti distruggo –  sentenziò, guardando il mobile davanti a lui. Era uno scrittoio, bello, di legno di quercia.
 – Il padrone di casa si trattava bene –  disse  – Tutto questo mi ricorda l’infanzia.
La magione era bella, grande, intonacata di bianco e con robuste travi sul balcone e intagli di teste per cacciar la malasorte.
Nella sala principale c’era un braccio armato fatto di pietra, il cui pugno chiuso ispirava l’uomo a scrivere versi guerreschi di un tempo al tramonto.
S’era detto egli più volte, che il signore della casa doveva tenere una spada o la torcia o anche un elmo su quel braccio. Sopra di esso, sul muro, qualcuno, forse gli uomini di Lautrec, aveva distrutto lo scudo araldico, simbolo del casato.
Stava esaminando ancora una volta il braccio, quando un rumore lo trasse alla finestra. Corse accanto al camino e si mise di lato, gettando un occhio.
Nella luce crepuscolare vide una donna fuggire con qualcosa stretto al seno. La inseguiva un bravaccio armato di spada e con un elmo di ferro in testa.

"La inseguiva un bravaccio armato di spada e con un elmo di ferro in testa"
La donna entrò in casa; i suoi passi risuonarono al piano di sotto.
 – Fermatevi, fermatevi! Abbiate pietà del bambino! –  disse. L’altro urlava in spagnolo, sputando ogni tanto, parole d’italiano.
Giunsero al piano superiore il bravaccio ad un’incollatura dalla vittima, la spada già alta sul capo.
Forse ebbro di vino e dell’odore di donna che gli giungeva alle nari, non vide una gamba spuntare da dietro la porta. Finì lungo disteso, mentre la spada gli sfuggiva di mano.
Qualcuno la raccolse, un giovane non tanto alto ma ben fatto; occhi verdi e bocca da sorriso, mani grandi, naso dritto, guance piene e coperte da lanugine ed un pizzetto appuntito, che faceva bella mostra sul viso sereno.
Costui era un certo Alberico di Lissone, figlio di filatori dell’Ordine degli Umiliati, caduto in disgrazia. Uno spirito semplice, pronto a ridere e bere in buona compagnia, sempre in fuga da lavoro, fatiche e problemi.
Vuoi per la guerra, vuoi per carestie, saccheggi e scempi vari, Alberico non aveva potuto prendersi cura del terreno di famiglia: ora era coperto di neve e usato come bivacco da lanzichenecchi e spagnoli. Quanto al lavoro da filatore, nessuno in quei tempi bui aveva bisogno di sete e stoffe preziose. Gli operai s’erano rintanati fra le mura dei borghi e non uscivano se non spinti a calci dai soldati stranieri.
Alberico vagava di casa in strada, di strada in casa, con la mente piena di versi e prose. Autore squattrinato, cercava l’idea, la folgorazione per vergar qualcosa di unico e straordinario. Aveva letto l’Orlando del Boiardo, divorato l’Ariosto; lo affascinavano storie di cavalieri e capitani di ventura, dove spade e battaglie s’alternavano in un turbinio verso la gloria. Proprio di uno di questi stava scrivendo, il fantomatico Marcozzo da Cremella, quando il bravaccio spagnolo lo aveva interrotto. 
La donna, intanto, s’era gettata dietro alle sue gambe e con il piccino ancora in braccio, gemeva e pregava che la si lasciasse in pace.
 – Messere, messere aiutatemi! –  esordì.
Nel frattempo lo spagnolo s’era rimesso in piedi e aveva estratto un pugnale. L’altro fece un unico affondo, miracolosamente diretto alle gambe del nemico. Cadde a terra lo spagnolo, in un lago di sangue, dibattendosi e imprecando.
 – Andate nell’altra stanza –  disse l’uomo alla donna  – Non è spettacolo per voi.
Quella, senza farselo ripetere, obbedì.
Lo spagnolo, frattanto, crepava dissanguato, fra insulti e bestemmie.
 – Un buon cattolico –  osservò l’altro  – Dio ti benedica –  disse, chiudendogli gli occhi.
Era dunque morto?
La prima cosa che fece il giovane fu soppesare la spada. Ottima arma, con l’elsa chiusa da un anello splendente.
Senza esitare, sganciò il cinturone del nemico e se lo mise in vita, quindi, vi infilò la spada. Ghermì anche gli stivali del morto, visto che i suoi cadevano a pezzi, ed il borsello.
 – Quattro scudi… –  disse, contando le monete  – Ricco il nostro amico!

graniglia
Prima di chiamare la donna, arrotolò i suoi scritti e li mise dentro uno degli stivali. C’era una tasca, che probabilmente serviva per l’alloggiamento di un pugnale di riserva, ma era così comoda, ben posta e sembrava fatta per documenti e fogli.
 – Ebbene, venite –  disse d’un tratto. Timidamente, la donna aprì l’uscio dell’altra camera  – Oh, messere, mio buon messere –  cominciò  – Avete reso grazie a Dio, salvando me e questa creatura!
L’uomo fece un piccolo inchino. Stava ritto, con la sinistra appoggiata all’elsa e gli stivali nuovi fiammanti.
 – Ditemi, ditemi… –  fece la donna  – …il nome di colui che ha pulito la spada in codesto sangue ispanico e sozzo!
L’uomo sorrise  – Il mio casato è da Cremella –  disse  – Io son Marcozzo!

Marcozzo? (l'originale è qui)
– Un buon cristiano –  commentò la donna  – Non come questi manigoldi spagnoli o gli svizzeri eretici che devastano i nostri poveri borghi…
 – Già –  fece l’uomo  – E ditemi, chi siete, buona dama?
Lei, dopo aver atteso alla cura del piccino, guardò il cavaliere e, raggiante in viso, disse  – Giovanna, vengo da Monza, eppure… –  aggiunse  – Non rammento un signore di natali gentilizi chiamato Da Cremella; siete forse piemontese o valdostano?
 – Lombardo signora –  disse l’uomo  – e il mio casato è piccolo, ma antico. Lottammo contro il Barbarossa noi da Cremella, ed il fatto che non ne abbiate mai sentito parlare è da addurre ai nostri frequenti viaggi in Oltremare, dove combattemmo i turchi saraceni per la gloria di Dio! –  al nome del Signore, Marcozzo – Alberico sguainò la spada e la tenne alta contro il pallido barbaglio lunare.
 – Infingardi, saraceni, eretici e francesi, tremate che Marcozzo da Cremella, capitano di ventura, a spada tratta vi sbudella e disfatta vi procura!
 – Come dite bene mio buon signore –  osservò la ragazza  – Proprio un cavaliere dei tempi andati!
 – Non è morta l’avventura, non è defunto l’amor cortese finché un cuore batte in codesto petto –  disse Marcozzo.
 – Ora andiamo –  continuò, allacciandosi l’elmo  – Sento voci di briganti che parlano spagnolo!
 – Sicuro son i compagni del bravo che avete ammazzato! –  fece Giovanna.
 – Presto e all’erta! –  disse Marcozzo, intascandosi il pugnale del soldato. Scesero così da quella magione, sulla via gelata, coperta da lastre scivolose e neve fresca.
Le armi in pugno e lo sguardo vigile, Marcozzo studiava la situazione. Andarono giù verso sinistra, dove il Lambro bagnava già la sponda nera.
Qui Alberico si fermò  – Dove eravate diretta, col vostro infante?
 – Ahimè –  fece Giovanna, con lacrime tristi  – Non ho dimora, ne famiglia. Gli svizzeri ci cacciarono da Monza installandosi nella nostra casa. Ho cercato qui riparo, ma mi hanno ucciso il marito e arso la stamberga.
 – Sempre gli svizzeri?
 – No, codesta volta gli spagnoli.
 – Marrani, infingardi! –  Marcozzo strinse l’elsa della spada così forte da farsi diventare bianche le nocche  – Non bastano i francesi a combinar danni! Ah, verrete con me; Marcozzo da Cremella avrà cura di voi.
 – Grazie –  fece Giovanna, in lacrime.
 – Non ringraziate, sono un cavaliere, giammai un volgare soldato! E ora –  disse, lanciando lo sguardo al fiume  – Muoviamoci!
 – Dove, dove andremo? –  chiese Giovanna  – Ah, ma certo, che stupida, a Cremella, per incontrar la vostra truppa, nevvero?
Marcozzo deglutì e un po’ a disagio rispose  – Ben sicuro!
 – E avrete lame, cannoni e archibugi per spazzar via i manigoldi?
Ancora una volta l’eroe annuì.
 – Ora bando alle parole, si passi all’azione! –  fece Marcozzo, inoltrandosi nel bosco.
Bisognava trovare un riparo asciutto e del cibo; la donna non si nutriva da giorni ed il piccolo piangeva e si disperava per il freddo intenso.
Alberico, trasformato in Marcozzo, si gettò così sulla pista che guidava ad un vecchio mulino. Là, una compagnia di lanzichenecchi aveva fatto il proprio quartier generale e bivaccava, ingrassando indisturbata, nell’attesa degli ordini di re Carlo V.
Alberico aveva sempre evitato quel luogo, contentandosi di rubacchiare ai contadini, piuttosto che ai bravacci stranieri. Ma ora la damigella in pericolo ed il suo neonato orgoglio da cavaliere imponevano un assalto diretto.
Ed eccolo il mulino e le guardie dei lanzi coi loro cappelli flosci che maneggiavano archibugi e spadoni a due mani.

mah ... non mi piace. E se ci mettessimo un paio di nani e un signore oscuro?

No!
Contrariamente agli spagnoli, leoni da battaglia, ma con scarsa disciplina, i lanzi stavan sempre all’erta, anche quando non v’era manifesto pericolo di battaglia o scaramuccia, cosicché era impossibile coglierli di sorpresa o con le armi abbassate.
Dove Alberico di Lissone avrebbe gettato la spada, intervenne Marcozzo e col petto gonfio, la spada in mano e la parlantina sciolta, fermò un carro di vettovaglie che avanzava lungo il sentiero boschivo.
 – Olà malnato, –  disse al carrettiere,  – è codesto un simbolo pagano che riconosco? –  domandò, balzando sul retro del veicolo e scoprendone il contenuto. Spuntava infatti, un bellissimo candelabro in argento, uno di quelli a sette bracci dagli ebrei nomato menorah e che serve per rituali e feste religiose.
Il guidatore, ricco artigiano, esule di Spagna, era un marrano, uno cioè di quegli ebrei sefarditi, costretti ad abbracciare la religione cristiana per sfuggire alla Santa Inquisizione. Questo Diego, battezzato col tristo nome di Merderigo, faceva di tutto per apparir cristiano, ma ora in Spagna, ora in Portogallo e quindi in Italia, i fratelli inquisitori l’avevano colto in eresia a predicar feste pagane col suo menorah brillante di luce.
Per mezzo di scudi, talleri e fiorini, s’era stabilito in quel di Lissone, non distante dalla casa di Alberico. Il prode cavaliere quindi lo conosceva bene e fece leva sulle di lui debolezze per assaltare il mulino.
 – Avanti! –  ruggì Marcozzo  – Che cos’è codesto aggeggio?
 – Ma nulla señor, –  disse Diego, in imbarazzo,  – un gingillo, un monile che trovai in quel di.
 – Lissone! –  terminò Marcozzo per lui  – E voi siete Diego, l’ebreo spagnolo, due volte cacciato dall’inquisizione e che ora cerca la fuga…
 – Per la Croce no! –  Diego fece il segno cristiano  – Voi mi confondete, mi scambiate con altri. Io son Merderigo de’ Merderici, artigiano caduto in disgrazia e nulla so di ebrei o fatti pagani!
Lesto Marcozzo con la spada infilzò una catenella che Diego teneva dietro la pellegrina  – Cos’è allora, che danza sulla punta della mia spada? Non è forse la stella di quel Davide che sconfisse il gigante Golia?
Stavolta l’ebreo non seppe che rispondere e cominciò a tremare  – Vi prego, vi prego señor! Io sono un buon cristiano, solo, a volte, beh, le tradizioni si fanno sentire e non ho avuto il coraggio di buttar via né la Stella, né quel vecchio candelabro…ma dite, dite, che può darvi il buon Diego pel vostro silenzio?
Marcozzo fece un sorriso e cominciò a battersi la lama sulla spalla  – Sono un cavaliere e capitano di ventura. Non ricatto, non derubo…
 – Dunque, che volete?
 – Il carro!
A Diego venne da piangere  – Il carro no!
 – Non preoccupatevi –  fece Marcozzo  – Non voglio prendere il vostro candelabro (e detto questo lo gettò nel Lambro) e nemmeno la Stella che portate (e Diego la tenne stretta nel pugno). È imperativo ch’io e la mia dama conquistiamo il mulino.
 – E che volete da me? –  l’ebreo reiterò la domanda.
 – Voi come scudiero e fedele servitore!
 – Ma siete un pazzo!
 – Affatto! –  ruggì il cavaliere  – Vengo da Cremella, io son Marcozzo!
 – È cavaliere e capitano di ventura –  aggiunse la donna  – Con la sua bella spada, ci libererà dagli stranieri.
 – Capitano di ventura? –  fece Diego, squadrando Marcozzo  – A me par uno straccione! E dov’è la compagnia?
 – Animo! –  ruggì Marcozzo  – Gettate via i simboli pagani e annunciatemi ai lanzi!
A Diego per poco non venne un colpo  – I lanzi? I lanzichenecchi dite?
 – Ebbene? –  fece il cavaliere con fiero cipiglio  – Come comandante agli ordini del re Carlo, devo prender possesso del territorio. Codesto mulino sarà il mio acquartieramento.

il mulino
– Siete pazzo o svitato? –  disse l’ebreo  – Eppoi, cavaliere! Chi mai vi crederà, così basso? Direte d’esser di cattivo stampo?
 – Credere? –  s’infuriò Marcozzo  – Nessuno deve credere. Io son cavaliere di natali gentilizi! E voi, marrano, farete meglio a cucirvi la bocca se non volete assaggiar la mia spada!
 – Certo, certo, ma ora toglietemi quell’affare da sotto il naso, ve ne prego.
 – Farete ciò che vi comando? –  disse il cavaliere, ringuainando la spada.
 – Si, che diavolo –  sbottò l’ebreo  – Anche se ci condurrete entrambi alla morte…
 – Stupidaggini –  fu la replica di Marcozzo.
Diego scrollò le spalle  – Non sapete la furia dei vostri contro noi marrani –  disse  – La famiglia del padre di mio padre venne quasi sterminata a Toledo, quella di mio padre a Segovia e in Portogallo…
 – Smettetela –  fece, brusco, Marcozzo  – Ho sentito questa storia centinaia di volte!
Diego, spalancati gli occhi, si gettò a scrutare meglio il capitano, e Marcozzo, accortosi dell’errore, diede un colpo all’elmo, calandolo fin sugli occhi.
 – Ebbene, in fede mia, il vostro viso non è nuovo a questo sguardo –  disse l’ebreo  – Non siete Alberico, figlio del filatore e della figlia del mugnaio?
 – Che dite, marrano? –  sbottò il cavaliere, la spada già in pugno ed un cipiglio fiero sul viso  – Chi può mai credere a voi? E, se desiderate un consiglio, il nome Merderigo non s’addice ad uno spagnolo e con quell’accento farete fatica a passar per lombardo! Ma ora basta o vi sbudello, conducete questo carro sotto il naso dei lanzi e vedremo…
E dunque, mestamente, Diego il marrano fece schioccar le redini. I cavalli, già stanchi, avanzarono piano, piano, a testa bassa, come rassegnati ad un cupo destino.
Trascorso qualche minuto, ecco i due lanzi scorgerli ed uno di essi avanzare con l’archibugio in spalla, mentre il secondo dava una voce agli occupanti del mulino.
Seduto sul carro, tronfio, con lo sguardo più autoritario che mai, stava Marcozzo e vicino, la dama Giovanna col piccolo infante tra le braccia.
 – Che fate qui? –  domandò il lanzichenecco in cattivo italiano. Con un sospiro, Diego rispose  – Prendiamo possesso del mulino.
L’altro fece una risata  – Per ordine di chi? –  domandò.
Rassegnato, Diego indicava ora il cavaliere  –Suo! Egli è Marcozzo da Cremella, gran condottiero e capitano di ventura agli ordini del re Carlo.
Il lanzichenecco ridivenne serio  – Questi son gli acquartieramenti del comandante di compagnia!
Marcozzo intervenne con aria di chi, superiore per nascita, non abbia da perdere tempo in discorsi inutili. Proprio questa sua sicumera e la parlantina sciolta, insinuarono il dubbio nei lanzi. Per uno strano caso, infatti, l’ultimo dispaccio giunto all’alfiere, diceva loro di attendere il comandante di compagnia, un lanzo italiano di provato valore. Non era possibile che fosse questo Marcozzo da Cremella? Sul dispaccio non v’erano nomi, ne gradi, poiché dal quartier generale stavano ancora decidendo a chi assegnare la compagnia di armati. Dacché erano partiti per l’Italia infatti, quei lanzi avevano avuto una gran sfortuna coi loro comandanti; uno moriva infatti sulle sponde del lago di Como, trafitto da un balestriere francese, l’altro periva di febbre ed un terzo ucciso dal proprio cavallo imbizzarrito. Dunque, svizzeri e spagnoli decidevano ora qual nuovo capitano affiancare ai poveri lanzi, ed ecco Marcozzo giungere come fulmine a ciel sereno, reclamando il mulino e la compagnia tutta.
 – Or dunque –  disse, levandosi in piedi e ponendo la mano sull’elsa della spada  – Infingardi insubordinati, volete far questione con me?

" ... volete far questione con me?"
– Ma chi ci dice –  obiettò il lanzichenecco  – Che voi siate chi dite di essere?
A questo punto, quando Diego già mormorava orazioni funebri, Marcozzo tirò fuori dallo stivale una pergamena scritta e, pregando che il soldato non sapesse leggere, gliela sbatté in faccia  – Ecco i documenti ufficiali! –  ruggì, stringendo con la destra il manico della spada  – E ora avanti, che la mia dama si raffredda!
Tremava infatti Giovanna da Monza, mentre il piccolo, destato dalle urla di Marcozzo, aveva ripreso a piangere. Tra il gelo, le urla del bambino e la stanchezza, il lanzo (che non sapeva leggere) decise di averne fin sopra il cappello  – Potete passare –  sentenziò, facendosi da parte. Fosse o no il loro comandante, era una questione che solo l’alfiere aveva da risolvere; lui, unico della compagnia, era letterato in tedesco ed in francese.
 – Conduci il cavallo alla stalla, Merderigo –  disse il cavaliere  – E tu, –  fece al lanzo,  – qual è il tuo nome?
 – Franz –   disse cupamente quello.
 – Aiuta il mio servo a scaricar il carro! Presto!
Un po’ riluttante, lo svizzero si affiancò a Diego  – Per di qua –  disse, guidandolo verso le stalle. L’ebreo, ancor più riluttante, lo seguì.
Giovanna e Marcozzo entrarono al mulino, la prima raggiante per il tepore del fuoco, il cavaliere con l’elmo in testa ed il petto gonfio.
La compagnia aveva diviso l’interno dell’edificio in maniera spartana. Ogni distaccamento aveva la sua zona con alabarde, tamburi e archibugi messi ordinatamente contro le pareti. Le stesse uniformi dei lanzi, di cuoio e lana, con tinte sgargianti erano state lavate al fiume e ora asciugavano davanti ad un fuoco.
Dei più vicini all’entrata, due o tre uomini giocavano a dadi, mentre un terzo puliva l’archibugio.
L’alfiere sedeva ubriaco sui sacchi di farina.
Marcozzo non fece come ci saremmo aspettati da un truffatore che entra nella tana dell’orso, non andò dall’ufficiale a mostrargli il documento, si mise invece a scrutare gli uomini, uno alla volta: eran temibili, barbuti, con gli occhi feroci e le armi affilate. A petto nudo nonostante l’inverno, molti vantavano cicatrici di battaglie sui corpi enormi.

"A petto nudo nonostante l’inverno, molti vantavano cicatrici di battaglie sui corpi enormi" (l'originale si trova qui)
Con quanta voce aveva in corpo, Marcozzo urlò  – Cani, infingardi, copritevi davanti ad una signora!
Quelli saltarono per aria. Chi era costui e perché si rivolgeva a loro con urla e imprecazioni?
 – Chi…chi…sciete… –  balbettò l’alfiere, svegliato dal trambusto.
 – Il casato è da Cremella, io son Marcozzo e giungo qui a prendere il comando! –  ruggì il nostro eroe.
 – I…i documenti ufficiali… –  rispose l’altro. Alberico – Marcozzo storse il naso, anche brillo, uno svizzero era sempre svizzero, preciso fino all’osso.
 – Come vi permettete? Documenti ufficiali? –  e, rivolto agli uomini  – Avanti, indossate le uniformi!
Quelli, vedendo che il vice non replicava (s’era quasi riaddormentato) colti alla sprovvista, raccolsero brache e casacche e s’abbigliarono in silenzio.
Frattanto Marcozzo girava, con la lama sulla spalla, scrutando ognuno minuziosamente  –Tu! –  disse, puntando un uomo a caso.
 – Sissignore?
 – Nome! –  fece Marcozzo.
 – Ernst di Friburgo, al vostro servizio, comandante –  il soldato fece un rigido inchino.

Ernst di Friburgo (l'originale si trova qui)
– Bene Ernst, prepara un giaciglio confortevole per dama Giovanna e metti delle tende o pelli che dividano i suoi quartieri dai vostri.
 – Sissignore –  disse il lanzo.
 – Gesta crudeli ci attendono –  pontificò Marcozzo  – Ma anche gloria e tanto bottino! –  disse.
Stava ancor parlando, che l’alfiere si riebbe dal torpore e pretese per la seconda volta i documenti.
I lanzi, che già si erano calmati, aguzzarono le orecchie e sbarrarono gli occhi. Era un momento delicato; il più piccolo errore e…
Alberico non volle pensarci, camminò a larghe falcate sino all’ufficiale, sbattendogli in viso la pergamena  – Ecco, brutto idiota! –  ruggì  – Avanti, declamate ad alta voce!
Quello, stordito dall’alcol, ghermì i documenti e provò a leggere. Ahimé, erano scritti in italiano e risultavano difficili da comprendere. L’ufficiale tuttavia, per darsi arie davanti ai soldati, affermava continuamente d’aver imparato l’italiano da fanciullo e di saperlo leggere e scrivere senza fallo. Poteva mai rimangiarsi tali bugie? Perciò, dopo aver regalato un’occhiata cupa al foglio, lo diede a Marcozzo  – Mi rimetto ai vostri ordini, comandante…
 – Da Cremella, idiota! –  disse, con spregio, Marcozzo.
 – Sissignore, chiedo venia, signore.
Quando Diego e Franz tornarono dalle stalle, gran stupore si dipinse sui loro volti; ogni soldato era intento alle proprie occupazioni, mentre il nuovo comandante stava seduto sui sacchi di farina, la lama snudata, a guardar tutti con cipiglio fiero. Da un paravento di pelli, al brillar della lucerna, la sposa del capitano cullava suo figlio, intonando una dolce ninnananna.
E dunque la piazzaforte fu conquistata ed i lanzi sottomessi.



E ora, ecco i giudizi!

I giudizi ottenuti dalla tua opera durante la seconda fase del torneo


Voto Giudizio
7.33 Delizioso. Ho letto tutto con il sorriso sulle labbra. Ottima la forma e l'invenzione linguistica. Un po' Don Chisciotte, Brancaleone o Capitan Spaventa, il personaggio di Alberico è amabile e divertente. Apprezzabili anche i riferimenti storici e le ambientazioni.
7.00 non è male come prova letteraria considerata la difficoltà di maneggiare un linguaggio non contemporaneo, anche se non sempre usato in modo uniforme, un piccolo esempio quando dici - siete pazzo o svitato - mi sembra un espressione troppo moderna, anche il narratore spesso si lascia andare ad uno stile attuale, ma solo qualcuno con le giuste competenze linguistiche può dire se vada bene, se sia corretto o no. Alcuni passaggi sono troppo veloci, soprattutto l'inizio è troppo sommario, in poche righe il protagonista comincia la sua avventura passando da scrittore all'essere un capitano, comunque ha il pregio di essere una storia piacevole, anche divertente.
8.33 Un bel racconto nei toni 'epicomici' di Don Chisciotte e Brancaleone. Lettura gradevole e divertente, sufficientemente scorrevole nonostante l' "anticizzazione" ad arte della lingua. L'unico limite - se di limite si può parlare - è il 'respiro' della narrazione: la trama e lo sviluppo dei personaggi reggono la struttura di un racconto, non di un romanzo. A voler cercare una piena 'verosimiglianza interna' del racconto, si riscontrano alcune forzature non plausibili: dalla perizia di Alberico-Marcozzo nel maneggiare le armi, all'ammutinamento/sciopero degli svizzeri per mancato pagamento deciso in un attimo durante la battaglia, passando per la cultura esibita dai lanzichenecchi, così eruditi da avventurarsi in dispute telogiche-fideistiche... Tuttavia queste forzature sono perdonabili e accettabili nel tono di 'divertissement' che caratterizza tutto il racconto.
8.33 E' codesto lo prequello (o il sequello) semicomico di certi roManzoni italici di grande fama? Gradevoli la trama e l'arcaica esposizione, forse non troppo originali ma di indubbia qualità! Ora serve solo una casa editrice dell'800...
4.67 Il lavoro presenta una trama piuttosto confusa (volutamente?) e personaggi che difficilmente assumono spessore. È più un canovaccio per il teatro dei burattini che un testo narrativo, o meglio, potrebbe proprio andare bene per una farsa eseguita da un gruppo di “teste di legno” e non sfigurerebbe! Sarebbe facile citare il linguaggio mutuato da “L’armata Brancaleone”: si può fingere che la citazione sia stata volontaria per dare più corpo alla parodia. Onestamente, nonostante il tono volutamente paradossale, faccio fatica a riscontrare elementi di comicità del testo che trovo stilisticamente incongruente (o ci si esprime sempre “in medioevale” o si lascia perdere). Si richiamano troppo i filmetti di serie B degli anni settanta (“i decameroni”, le commediole ‘storiche’ scollacciate …), oppure il “Bertoldo” di G.C. Croce, perfino Tonino Guerra di “Millemosche” o Calvino del “Cavaliere inesistente”, tutti accostamenti degnissimi, intendiamoci, ma storie risolte con ben altro stile. Disturba anche la contaminazione con altri personaggi “famosi”, letterari o no (Maramaldo, D’Artagnan…) che non trovano poi un giusta collocazione. Quindi lavoro un po’ farraginoso che trova però una nota positiva nel fatto di essere paradossale (diversamente da tanti pseudo polizieschi che ho letto o di altrettante produzioni di autori tormentati nell’”io”). A meno che l’ispirazione non sia nata delle storie scritte sul Signore de Lapalisse caduto appunto nella battaglia di Pavia, il cui valore fu ricordato con involontaria comicità nei seguenti versi: s’il n’étoit pas mort/il seroit encore en vie e che passò in proverbio per i giochi di parole che poi ne seguirono. Se è così, allora ci siamo!
4.67 Chiaramente ispirato alla letteratura eroicomica, a partire da quelli che possono ritenersi i capostipiti del genere, ossia il “Don Chisciotte” per la prosa e “La secchia rapita” e “Meo Patacca” per la poesia, giù giù fino al cinema contemporaneo e al dittico monicelliano di Brancaleone da Norcia. Non a caso a pagina 9, del protagonista viene detto: «Marcozzo, che aveva letto poemi cavallereschi, ma nulla sapeva dell’arte della guerra, si fece consigliar da Diego.» Il passo non può non ricordarci un certo “hidalgo manchego”, insomma. Ma le analogie col capolavoro / modello di Cervantes finiscono qui. Non era affatto facile misurarsi con simili “mostri”, e infatti il nostro “cavaliere” (errante in tutti i sensi), ha senz’altro mancato il bersaglio. Se infatti voleva divertire i lettori, non c’è riuscito nella maniera più assoluta; più che altro perché l’opera non ci mostra alcunché di faceto manco a cercarlo col lanternino. Ma non è solo questo a privare il “Marcozzo” di punti forti, e ad attribuirgliene soltanto di deboli. È anche tutta un’infilata di incontri / scontri (fisici e/o verbali) senza pathos, alternati a un novero di accadimenti e ragguagli storici che lasciano il tempo che trovano. Analisi psicologica e fisiognomica dei personaggi pressoché inesistente, che fatalmente li appiattisce e rende tutti larve simili fra loro (e mediocri). Il linguaggio, pure, non è nemmeno l’ombra di quelle fantastiche invenzioni linguistiche che i migliori esponenti del filone ci hanno regalato nei secoli. Oltretutto, sarebbe proprio in romanzi come questo che, qualora ci fosse, dovrebbe scaturire giocosa la vena grottesca dell’autore, e regalarci momenti – comici, drammatici o tragicomici che siano – suggestivi e memorabili. Eppure niente di tuttociò. Solo una sessantina di paginone – poche, per fortuna – di autentica ed “epica” noia.
6.00 E’ la storia semiseria d’Alberico di Lissone, scrittore spiantato e fannullone, figlio di filatori dell’Ordine degli Umiliati; tra guerre, carestie, saccheggi, operai licenziati, letto l’Ariosto che cita a memoria sentendosi il guerriero Rinaldo sedotto da Armida, con Milano in mano ai francesi, Pavia assediata, Lutero che con le tesi di Wittenberg riforma la Chiesa, nel febbraio del 1525, sul trasandato terreno di famiglia a Seregno, s’imbatte nel bivacco d’una compagnia di spagnoli e lanzichenecchi agli ordini di Carlo V d’Asburgo re di Spagna, e si trasforma nell’ateo Marcozzo da Crepella, o da Cremella, la famiglia che bonificò la zona da briganti e pagani, che sottomise nuclei di longobardi e lottò contro Barbarossa, il capostipite nominato visconte all’epoca di Carlo Magno. Dopodiché, ferito, dimagrito, incappato nell’Inquisizione spagnola, incontra il curato che lo educò e mise in catene (accusandolo d’eresia sodomia luteranesimo spionaggio). Infine la battaglia di Pavia e Francesco I di Valois vinto. Dunque tra protagonisti ebrei musulmani cristiani chiamati D’Artagnan, Untervaldo, Merderigo, Maramaldo, Malatesta, conte di Lautrec, Jungfrau di Frauenfeld sotto il vessillo del Mulino nella Manca, tra autodafé alla “Mistero buffo” e Umberto Eco, tra ”Armata Brancaleone” e “Il mestiere delle armi”, per non dimenticare “La guerra della fine del mondo” di Vargas Llosa e il “Memoriale del convento” di Saramago, alla maniera di Baltasar che perde la mano o di Cervantes che nel 1570 si spostò in Italia per evitarne il taglio, di questo passatempo che ritengo consumo letterario fine a se stesso, più che valutarlo garbato e forse attraente per chi apprezza il genere, non riesco dire. Mi spiace.
8.00 Gentile autore/autrice, ho letto volentieri il tuo testo, l'ho davvero 'gustato' e mi sono divertita. Ci sono proprio tutti gli ingredienti del romanzo cavalleresco: battaglie, mercenari, giostre, cavalieri e donzelle, villici, scudieri, inquisizione, monaci ... la scrittura è perfettamente adeguata, così come la veridicità del contesto storico: seppur non sappia nulla riguardo all'epoca descritta, ti credo sulla parola. I personaggi parlano e si comportano secondo la propria condizione, estrazione sociale e provenienza geografica, bello! Hai ricreato un 'romanzo cortese' in cui l'intreccio delle vicende è predominante rispetto alla psicologia dei personaggi (com'è giusto che sia), tutto perfetto ... solo che ... mi chiedo ... e ora? Nella mia ignoranza, non so se questo 'genere' abbia già una sua specifica collocazione editoriale, un pubblico di estimatori che sappia andare al di là del 'solito'. Da ricordi scolastici so che i testi cavallereschi erano concepiti come intrattenimento per un pubblico di nobili origini e di gusti raffinati... ci sono ancora lettori così? Lo spero. Grazie.
6.00 Riscrivere, anno domini 2012, un romanzo cavalleresco ha il sapore di un esercizio di stile, per quanto a tratti divertente. Peraltro, spesso il narratore dimentica il suo espediente e aggiorna – involontariamente? – lo stile per ampi tratti. Manzoni (e l‘Eco di Baudolino) hanno avuto il buon senso di limitare un simile divertissement alle prime battute delle loro opere. D’altro parte, l’imitazione del linguaggio cinquecentesco è tutt’altro che filologica: il risultato ricorda più Brancaleone (o, nei momenti meno riusciti, l’Attila di Abatantuono). Per inciso (e tanto per dirne una), le tecniche di combattimento dei tercios erano assai diverse da quelle rappresentate (e anche l’esemplificazione pratica del detto Pas d’argent, pas de Suisses risulta ancora più antirealistica del resto dell’opera). Strappano un sorriso (fuggevole) l’impudenza di un D’Artagnan cent’anni ante litteram, qualche spunto comico per quanto trito (i duetti servo furbo / padrone sciocco, qualche battuta pruriginosa) e certe rimembranze del Chisciotte. L’intera opera, in conclusione, divertente a volte e sempre sostanzialmente prevedibile nella sua totale inverosimiglianza (a dispetto delle velleità di realismo della parodia), non giunge nulla a quanto può leggersi di meno recente di analogo argomento, un po’ come un film con Errol Flynn nel pomeriggio di Rete4.
10.00 Complimenti, davvero bello. Misurato, mai volgare, a tratti spassoso sempre con buon gusto, storicamente preciso e ben documentato, dotato di un ritmo narrativo infallibile nel mescolare elementi di commedia con qualche sfumatura di maggiore spessore e profondità. Il termine “leggero” nella sua accezione più positiva descrive il tuo scritto. Leggero è qualcosa che crea una sospensione del tempo, una bolla in cui ti perdi, uscendone più ricco. Tutto è necessario ed asservito al plot, niente è ridondante, non giustificato sul piano formale o contenutistico o retorico. L’uso della lingua è eccellente e denota una cultura profonda, dissimulata con eleganza nella leggerezza di cui si diceva. I personaggi sono veri, approfonditi, connotati e denotati attraverso i dialoghi e non semplicemente descritti (e tuttavia ci troviamo in presenza di un narratore intrusivo, per una volta efficace). L’ambientazione storica emerge e avvolge la vicenda, narrata con maestria nei toni della migliore commedia all’italiana (quella che lascia un retrogusto amaro, dopo averti intrattenuto e fatto sorridere). Un plauso sincero. [il tuo pseudonimo richiama una certa rivista che amo molto....sarai mica uno dei redattori??]
5.00 I dialoghi sono gestiti male, si ha difficoltà a distinguere tra il commento ed il parlato. Il linguaggio è abbastanza fluido, fedele alla promessa di una novella semiseria. L’incontro con Veronica e le successive nozze... è un po’ patetico. Apprezzabile il colpo di scena finale di don Adelmo, quale padre di Alberico, che fa dimenticare la delusione provata con il matrimonio con Veronica. Un lieto fine dunque, non per tutti ma per Alberico e i suoi due bambini. Un testo che si lascia leggere fino alla fine, senza annoiare troppo.
4.00 Poemetto donchisciottesco fuori tempo per stile e storia raccontata. In ritardo di qualche secolo tenta di portare in auge i poemi d'avventura, usando una scrittura a metà strada tra Ariosto e Cervantes. A parte la pochezza delle avventure raccontate, mi chiedo quale posto ci sia nella letteratura odierna per questo revival di romanzo d'arme e di eroi. Il tentativo di impostare lo scritto su una chiave brillante non raggiunge il suo scopo, i personaggi sono macchiette, privi di ogni consistenza. L'originalità è assente. Mi dispiace, ma proprio non vedo speranze di pubblicazione per un'opera così fuori tempo.

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