lunedì 13 maggio 2013

Ientaculum ad popina (colazione al bar) - esercizio di scrittura


Un colombo.
Tertius Barbatius Silo si svegliò, madido di sudore: un colombo tubava fuori, sul balcone. Chissà come, quel verso aveva ricordato a Silo l’urlo della buccina militare.
L’uomo si guardò attorno: era in una stanza, disteso in un lettuccio. Su una sedia, accanto, c’erano i sandali e il bastone di vitigno che aveva portato con gloria da centurione.
Il mantello gli aveva fatto da coperta per la notte. Una vecchia tenda bucherellata lasciava entrare la luce opaca del giorno.
La stanza era delimitata da una tenda dal resto del cenaculum. Esso si trovava al secondo piano dell’Insula di Cerere, un grosso condominio affacciante sul decumano di Nova Eboracum. Nova Eboracum sorgeva su un’isola, detta Felix, nella provincia romana di Nova Frisia, all’altro capo del mondo.

Silo era nato in Scandia quarantotto anni prima. Aveva servito nelle legioni, aveva combattuto nei campi di battaglia delle terre oltre Serica, aveva affrontato l’Oceanus Atlantitus ed era approdato nel continente di Hesperia.
E aveva combattuto. Ancora.
Nei sogni, sentiva il rumore dell’artiglieria scaricata sui barbari, sentiva le urla dei soldati, le urla del nemico e le proprie, forti come una tempesta, quando impartiva gli ordini.
Abituarsi alla vita civile era quanto più difficile ci fosse. Ora che le botteghe aprivano, Silo aveva nelle orecchie le urla dei negozianti, le bestemmie, il passo cadenzato degli schiavi. Il rumore di una città intera gli era nemico e gli evocava ricordi nefasti, che Silo cercava, talvolta, di scacciare con vino da due assi.
Oltre la tenda, sentì un urlo femminile a cui ne fece eco uno maschile. Si girò, scostò il mantello, si mise seduto, si piegò in avanti, si passò una mano sul cranio rasato, fino alla nuca. Dei passi – piedi nudi – si avvicinarono. Silo sbuffò, mentre la tenda veniva scostata.
«Tertius, come stai?» disse una voce di donna.
Silo si mise i sandali, si alzò, scostò la tenda che dava sul balconcino, uscì, tornò con un bacile pieno d’acqua, lo posò sulla sedia e si sciacquò vigorosamente la faccia.
«Brutto sogno?» disse la voce di prima.
«Torna a fottere con tuo marito, Luperca.» rispose, agro, Silo.
«Perché mi tratti così?» domandò la donna. Silo non rispose. Dopo un po’, sentì che la tenda veniva riaccostata, ci furono di nuovo i passi che, stavolta, s’allontanavano.
Silo prese una cintura di corda dallo schienale e se la legò in vita, si buttò addosso il mantello, poi prese il bastone di vitigno: era con lui da anni. Aveva simboleggiato il suo rango nella centuria e con quello in pugno, Silo aveva raddrizzato più di un legionario. Era un bastone lungo due braccia, contorto e nodoso. Il legno era reso liscio e scuro dal tempo. Silo conosceva ogni gobba, ogni nodo di quel bastone.
Mise la mano sotto il cuscino e prese un borsello, lo aprì e controllò quante monete ci fossero dentro: aveva i soldi per le terme e un pasto veloce alla popina di fronte. Legò il borsello alla cintura e uscì dal cenaculum.
Sul pianerottolo: due bambini sporchi che giocavano a biglie con delle noci e l’odore della legna che brucia. Sulla parete di fronte a lui: un enorme fallo disegnato di fresco.
I bimbi guardarono Silo e sorrisero. Silo li fissò, annuì e imboccò le scale.
Al primo piano vide una schiava vuotare i vasi da notte dei padroni in una grossa giara. La schiava sentì i suoi passi, si girò e gli fece un sorriso:
«Salve, Tertius Silo.» disse.
«Saluti, Vesnia.» replicò lui, passandole accanto.
«Tertius … » la schiava, svuotato l’ultimo vaso, indugiò sul pianerottolo. Silo girò la testa e si fermò.
« … niente.» disse Vesnia.
Silo rimase a guardarla, fino a ché la donna non rientrò nel cenaculum e si richiuse la porta alle spalle.
L’ex-centurione scese in strada, sotto i portici. Una bottega di frutta e verdura stava aprendo in quel momento. Silo vide il proprietario spostare uno dei grossi battenti di legno e, aiutato dalla moglie e dal figlio, invadere il portico coi banchi della frutta.
«Silo, buongiorno!» disse l’uomo.
«Buongiorno a te, Numerius.»
Senza aggiungere altro, Silo uscì dal portico e attraversò la strada.
La popina faceva angolo, dall’altra parte del decumano, e stava aprendo proprio ora. Silo andò al bancone, fece un cenno di saluto alla schiava inserviente e scelse un piatto d’olive e polenta di mais.
«Un bicchiere di vino.» disse. Mise un pugno di sesterzi sul bancone e andò a sedersi a un tavolo.
Di lì a poco entrarono due uomini, ordinarono e si sedettero. Silo li guardò e li salutò con un cenno. Quelli ricambiarono.
Una schiava cameriera portò il piatto e il vino. Silo cominciò a mangiare. Dal grande arco d’entrata della popina, qualche nuvola si rincorreva nel cielo azzurro.
Il cielo fu oscurato da tre uomini: entrarono a passo spedito.
«Tertius Silo! Giusto te!» disse uno di quelli, sedendosi al tavolo dell’ex-centurione.
«Servius Laeca, che vuoi?» domandò Silo, afferrando una manciata di polenta e mettendola in bocca.
«Ho appuntamento alle terme con Gallus Trebellus Arrianus. Vorrei mi accompagnassi.» disse l’uomo.
Silo prese un’oliva, la mise in bocca, mangiò la polpa e sputò il nocciolo nel piatto.
«Quando?» domandò.
«All’ora in cui il foro è mezzo pieno.» rispose Laeca.
«Alle Terme Settentrionali?» domandò Silo.
Laeca annuì: «Di solito vai ai Bagni Piccoli, ma vedi, Arrianus sta per vendermi l’Insula di Cerere, e voglio che questa cosa vada liscia.»
Silo guardò Laeca negli occhi:
«Che ci guadagno?»
Laeca si spostò indietro col busto e sorrise: «Potrei nominarti amministratore.»
«E Caelinus?» domandò Silo, parlando del ricco inquilino del primo piano, il padrone di Vesna.
«Ci sarà anche lui,» disse Laeca, «naturalmente vorrebbe accaparrarsi la carica d’amministratore, ma, ascolta: se io compro la Cerere, io decido chi la amministra.»
«Chiaro.» replicò Silo.
«Ci sarai?»
Silo si alzò e andò verso la soglia; lì si fermò, si girò e annuì.  

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