martedì 2 settembre 2014

Plancton - racconto a puntate - 1




Il plancton galleggiava nell’acqua, trasportato dal movimento delle onde. Era una grande massa, composta da unità di varie dimensioni, l’una quasi totalmente dissimile dall’altra. C’erano i virus, i batteri – che si nutrivano decomponendo le altre forme di plancton – e poi le forme più grosse, come il mesoplancton, che poteva arrivare fino ai due centimetri di grandezza. Al limite del gruppo, il megaplancton – che poteva essere considerato plancton per il rotto della cuffia, una vera specie di bestioni che arrivavano fino ai due metri. Certe meduse rientravano in quel gruppo.
I batteri planctonici non erano alla base della catena alimentare del plancton, il fitoplancton sì. Il fitoplancton era composto per la maggior parte da alghe monocellulari che riuscivano a sintetizzare la materia organica attraverso la radiazione solare e certe sostante disciolte nell’acqua. Poi c’era lo zooplancton, composto per lo più da protozoi. Questi protozoi erano uno diverso dall’altro e si spostavano appena muovendo piccoli flagelli. Erano traslucidi e pulsanti, vibranti d’acqua e di vita. Si spostavano come una ricca massa sulla pellicola delle onde.
C’erano anche alcune larve di pesci che, da adulte, avrebbero abbandonato il sicuro esercito di microorganismi per passare in quello più frettoloso e meno sicuro dei necton. I necton era composto da quegli organismi che nuotavano attivamente per spostarsi nell’acqua. Le seppie e gli squali, con quei loro corpo tozzi da bombardieri, erano necton. I necton, in genere, lasciavano in pace il plancton, ma predavano altri organismi necton o benthos, ossia quegli organismi acquatici che vivevano a stretto contatto coi fondali o fissati a un qualche substrato solido. Le alghe pluricellulari, i coralli e i molluschi bivalvi o gasteropodi, per esempio, erano benthos. Perciò il plancton non faceva altro che mangiare se stesso, rigurgitarsi, riprodursi per mitosi, nutrirsi e rivoltarsi, trasportato dall’acqua. Una larva di pesce ghiaccio era diventata adulta e si era separata dal plancton. Traslucida e scheletrica, la creatura si spostava nella colonna d’acqua del necton, muovendosi sulle pinne e lasciandosi trasportare dagli strati di corrente. Scivolava fra diatomee marine e sargassi, in un brodo di forme geometriche e bluastre colorate di luce e d’ombra. Il suo corpo era lungo otto centimetri e non aveva scaglie. La testa era schiacciata e appuntita e i denti erano piccolissimi e numerosi. Lo scheletro era fatto quasi completamente da cartilagine. Questa creatura non sapeva di avere un nome greco – plancton e necton – né uno latino, Salanx chinensis. Il pesce di ghiaccio scivolò nella bocca di un pesce pilota che, abbandonato l’ombrello di una medusa, si era avventurato per mangiare. Questo pesce aveva una livrea bianco grigia con fasce nere e un corpo robusto e allungato. Si sentiva al sicuro dietro l’ombrello della Chrysaora a cui faceva compagnia. La frangia sinistra dell’ombrello gli si agitava davanti, spingendo acqua cristallina su di esso. C’erano parecchi come lui, parecchi pesci pilota, ma quello era il pesce della Chrysaora. Un pesce pilota più grosso stava davanti alla punta del naso di uno squalo. Quest’ultimo non ci vedeva granché, ma veniva guidato dalle vibrazioni dei sottili canali di muco che gli correvano lungo tutto il corpo e si sviluppavano dalle ampolle di Lorenzini poste sulla parte frontale della testa. Gli occhi non distinguevano i colori, per la mancanza di coni nella retina, ma erano capaci di captare la presenza di oggetti anche piccolissimi a distanza di uno, due metri, anche se non ne distinguevano la forma. L’animale era lungo poco meno di due metri e aveva una forma aerodinamica, bellissima. Viveva sull’orlo del grande altipiano scivolante nell’abisso. Cercava da mangiare fra le bio-costruzioni coralline, nuotando accanto a quelli che somigliavano a funghi, a foreste e piccole corna aliene di vita sottomarina. Si lasciava scivolare sulla pancia bianca a pochi palmi dai coralli, per mettere il naso sull’orlo dell’abisso e farsi attirare dal profondo e dalle sue correnti.

continua...

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