martedì 5 febbraio 2013

Il salto - un racconto su wh40k




"Il salto" è ambientato nell'universo del wargame tridimensionale "Warhammer 40.000".
Da Wikipedia:
Warhammer 40.000 (conosciuto anche come Warhammer 40K o semplicemente WH40K) è un wargame tridimensionale futuristico, prodotto dalla inglese Games Workshop. È incentrato su un'ambientazione futuristica che prende ispirazione dal libro Fanteria dello spazio. Il gioco ruota intorno a miniature in scala 1:65 cioè alte 28mm (originariamente erano in 20-25mm) prodotte dalla Citadel Miniatures, che rappresentano soldati, creature e macchine da guerra. Il gioco richiede una basilare comprensione della tattica delle piccole squadre e molta fortuna.

Il racconto si svolge nella città-alveare di Polia, durante la crociata di Nimbosa e descrive le azioni di un kroot (krootis aviana) contro alcune unità del Sedicesimo Reggimento dei Primogeniti Vostroyani della guardia imperiale.


* * *


un kroot
Il kroot lasciò che alcune gocce di sudore oleoso sporcassero il tronco dell’albero. L’odore, pungente, della secrezione fu avvertito e “abbassato” dall’emisfero frontale del suo cervello. Il kroot aveva inconsciamente alterato la composizione del sudore, per lasciare un messaggio alla retroguardia. Quanto sarebbero arrivati, gli altri “muta” avrebbero sentito odore di guai.
Non gli piaceva quel posto, né gli piacevano i suoi alberi: non erano verdi, né si poteva dire fossero vivi.
Le piume sulla sua testa si mossero.
Gli arrivò un odore pungente di sale e carne di mammifero. La sua mente lo catalogò con tre lettere: “ohx”.
Aveva sentito quella parola nella bocca dei nemici. Aveva sentito le loro tazze fumare con il liquido che faceva quel tanfo.
Guardò in basso: il terreno pieno di macerie si estendeva per la lunghezza di un salto. Dall’altra parte c’era una piccola macchia d’alberi solitari.
Le macerie formavano una montagnola, che il kroot giudicò friabile. Se vi avesse posato anche solo un piede, avrebbe fatto rumore, attirando il nemico.
Bisognava ricorrere al salto.
I kroot misuravano la distanza in modo differente dagli altri: per loro, razza pragmatica, un punto era vicino se lo si poteva raggiungere con un salto.
Quel kroot, in particolare, aveva tredici anni, di cui uno intero passato a catturare e divorare volatili. Il dna degli uccelli, assorbito dal suo corpo, stava facendo di lui un buon saltatore. I “muta” anziani dicevano che quella dieta avrebbe potuto fargli crescere perfino un paio d’ali.
Per ora di ali, il kroot, non ne aveva, ma sotto la pelle delle gambe magre, c’erano muscoli da saltatore.
Il naso registrò ancora odore di ohx. Le orecchie sentirono una parola, poi un’altra e un’altra: il nemico beveva e chiacchierava.
Il kroot avvertì il borbottio lontano d’un grosso motore. La sua mente lo registrò come “carro armato”. Quegli affari generavano fuoco e morte.
Il kroot modificò la secrezione oleosa inserendovi una nota di estremo pericolo, dopodiché, pur rischiando, fece schioccare la mandibola. Il suono si propagò nell’aria. La creatura sperava che i “muta” avvertissero lo schiocco e agissero di conseguenza.
Sfiorò con la mano l’amuleto di piume di falco che aveva sull’armatura. Al collo portava una serie di fini ossa d’uccello infilate in un laccio di cuoio. Quando si mosse, le ossa tintinnarono, sbattendo contro l’armatura. Il kroot s’infilò l’amuleto nell’armatura e si preparò al salto.
Impugnò il fucile ben stretto e ne arrotolò il balteo al calcio. Saltare col fucile a tracolla sarebbe stato stupido; esso avrebbe offerto resistenza all’aria e avrebbe fatto rumore. Tenendolo con entrambe le mani, invece, il kroot lo avrebbe posizionato in modo da fargli fendere l’aria con la canna e da tenerlo pronto al fuoco.
Visualizzò il più vicino albero della “macchia”, dall’altra parte. Dalla sua cima piatta si estroflettevano germogli cilindrici che puzzavano di plastacciaio. Il kroot si sarebbe afferrato a quelli con le dita dei piedi. Gli artigli da uccello gli avrebbero assicurato una presa salda.
In ultimo, si assicurò che le due granate a frammentazione fossero al loro posto e che il coltello fosse nel rudimentale fodero. Poi controllò la melta. Gli anziani avevano parlato dell’onda di morte che poteva sprigionare. Gli avevano detto che la sua era un vecchio modello imperiale, e che doveva usarla solo contro una grande macchina.
Come il carro.
Il kroot ci pensò un attimo. La sua non era una missione d’attacco: avrebbe dovuto raccogliere informazioni sul terreno, da passare ai “muta”, che le avrebbero comunicate ai tau. Sapeva che quello era un distretto abitativo e non un bersaglio primario, ma era possibile che il nemico avesse spostato o nascosto lì qualche obiettivo importante. Una fabbrica, per esempio. Quella città-alveare ne aveva decine e ognuna di loro cooperava al processo difensivo. Distruggendole, i tau avrebbero indebolito il nemico.
I tau avevano da sempre protetto i kroot e i kroot riverivano i tau. Di più: i kroot erano loro amici. La creatura si ricordò quel fatto, mentre gli artigli scivolavano sul plastacciaio dello strano “albero”. Avrebbe voluto essere a casa, a sentire il profumo dei jagga. Avrebbe voluto crogiolarsi nel suo nido di legno masticato e vomitato. E invece era lì, con la puzza di caffè alieno nelle narici.
Ma avrebbe saltato. Se ci fosse riuscito, avrebbe schizzato l’albero d’arrivo, comunicando ai “muta”: «Ce l’ho fatta!»
Inspirò gli odori di quella foresta morta, si guardò indietro e trattenne il fiato: gli alberi da cui era giunto si trovavano vicinissimi gli uni agli altri e intervallati da piccoli salti pieni di macerie. Era stato uno scherzo penetrare silenziosamente nella città. Il nemico s’aspettava un attacco massiccio, non certo un unico, giovane kroot di tredici anni.
Dunque si preparò, arcuando il corpo magro, da uccello, e focalizzando la macchia fredda dell’albero più vicino con gli occhi lattiginosi.
Contrasse i muscoli e saltò.
Aveva fasci potenti, composti da densi fusi che gli davano un rapporto massa-potenza cento volte più alto rispetto a quello degli umani.
Il kroot s’allungò, stringendo il fucile al petto e tagliando l’aria col muso. Le penne sul cranio frusciarono come l’ala di un falco.
Sentì il mondo lambirgli i fianchi e socchiuse gli occhi. Gli sembrò di volare. Era come un assaggio di ciò che sarebbe stato molti anni dopo: un falco. Sì, sarebbe diventato un falco. I “muta” anziani dicevano che quell’uccello fosse il progenitore di tutti i kroot. Lo riverivano come uno spirito guida.
Vide l’albero morto, sempre più vicino.
Improvvisamente, capì d’aver saltato con troppa potenza. Il suo dna aviario gli aveva talmente sviluppato i muscoli, da portarlo in quella situazione. Se non avesse frenato, sarebbe caduto oltre la “macchia”, in braccio al nemico.
Mancò il primo “albero”, estroflesse le gambe, allargò gli artigli e cercò di ruotare il bacino. Sentì l’aria colpirlo di lato e si sbilanciò a destra.
Un artiglio sfiorò il secondo albero.
Il kroot allungò la gamba sinistra: se anche il secondo albero era ormai fuori portata, lo stesso non poteva dirsi del terzo.
Con tre dita, s’aggrappò all’orlo sbrecciato di plastacciaio, diede un colpo di reni e allungò il fucile. Il quarto e ultimo albero si trovava più avanti. Il kroot avrebbe dovuto artigliarlo per bilanciarsi: senza quell’appiglio, il suo stesso peso lo avrebbe immancabilmente sbilanciato all’indietro e lo avrebbe fatto cadere. Il ché non era un gran danno, ma cadendo, il kroot avrebbe dovuto girarsi e atterrare sulle macerie. E avrebbe fatto rumore.
Fino a lì, probabilmente gli umani non avevano sentito nulla, per via del carro. Ma se il kroot fosse rovinato sulle macerie, allora sì che sarebbero stati guai!
Il suo fucile a impulsi era modellato sugli antichi bastoni da combattimento del pianeta Pech. E aveva una coppia di lame ricurve sotto la canna, vicino alla punta.
Con quelle, s’artigliò all’albero. Nell’aria, risuonò un clang proprio mentre il motore del carro aumentava i giri.
Il kroot si trovò in una posizione di svantaggio. Era allungato fra due “alberi”, agganciato con gli artigli di un piede e le lame del fucile. Se il nemico avesse guardato in su, si sarebbe accorto di lui.
Gli occhi del kroot potevano vedere nello spettro infrarosso. Guardando in basso, la creatura venne abbagliata dal calore di un fuoco.
Il fuoco si trovava a mezzo salto. Attorno ad esso, c’erano tre figure rosse, dalle estremità più chiare, protese verso la fiamma.
Uomini che si scaldano le mani, pensò.
Diede un colpo di reni e si spinse all’indietro con la punta del fucile. Affondò l’altro artiglio nell’albero e piegò il bacino.
La spinta lo fece rimanere in equilibrio sul terzo albero. Si accovacciò, come un falco pronto a calare sulla preda.
Più a destra, c’era il carro: un grosso mattone azzurro, con un cuore rosso fuoco. Il kroot lo vide girare sui cingoli e allontanarsi dalla montagna di detriti vicino cui si trovava.
Solo allora, scorse altre figure che spostavano un mortaio.
S’arrischiò a lanciare uno schiocco e un breve, acuto, fischio. Poi guardò in basso.
Gli uomini attorno al fuoco lo stavano fissando.

soldati vostroyani della guardia imperiale
«Ti dico che ho sentito qualcosa!» Pavel Borisevic Gromiko allontanò la tazza di ohx dai baffi e guardò il suo caporale.
«Khek!» Ylia Dmitrovic Mirianin mandò giù un sorso di caffè e scosse la testa. Aveva lunghi mustacchi grigi e il volto sfigurato da una cicatrice che gli attraversava l’occhio destro. Posò la tazza e afferrò la pipa; se la mise in bocca, fece un tiro, grugnì e fece un gesto con la mano.
«Questo khek di posto t’ha fatto rincretinire!» disse. Parlava basso gotico con un forte accento di Magdan.
«Non c’è niente là fuori, Pasha Borisevic, e sai perché? Diglielo tu, Fjodor!» sbottò il caporale, girandosi verso il terzo soldato.
Erano lì da almeno un giorno, al freddo, per proteggere un settore inutile che il loro stesso reggimento aveva demolito. Quella mattina avevano visto arrivare un carro con un gigantesco rostro sul muso. Per gran parte del giorno, il bestione s’era occupato di buttar giù quanto restava dei palazzi. I muri, già sventrati dalle cariche di demolizione, erano crollati uno dopo l’altro sotto i colpi del carro.
L’equipaggio aveva fatto una pausa e s’era unito a loro per bere caffè e far qualche tiro di dado. Adesso era appena rientrato nel carro. C’era solo un ultimo gruppo di plinti da buttar giù.
Fjodor, un veterano di Sohlsvodd, ridacchiò e disse: «Perché i tau hanno paura di noi!»
Ylia alzò la pipa e disse, col suo vocione: «Gloria Imperator. I primogeniti non cederanno!»
Pasha bevve un sorso di ohx. Non che gli piacesse, ma serviva a stare svegli. Fosse per lui, avrebbe mandato giù volentieri un bicchierino di rahzvod. Ciò gli fece pensare a suo padre, un onesto primogenito, cresciuto nella città-alveare del distretto di Muskha. Si era congedato come caporale e viveva a Vostroya, da solo, in un appartamento al trecentundicesimo piano dell’alveare. Anni a servire l’imperatore e i nobili, per finire in quel modo.
«Ascolta, Pasha Borisevic,» sbottò Ylia, afferrandolo per il polso e facendogli schizzare il caffè sui baffi, «io sono un soldato! Lo testimoniano le mie cicatrici. Come credi che me la sia fatta questa, uh? È stato un eldar col suo coltello! Io sono sopravvissuto, Pasha, affidandomi al buonsenso e seguendo gli ordini. E adesso, se con la tua boria muskhaviana vuoi venire qui a dettar legge, beh, alza il culo e vai a ingoiare quel khek di caffè da un’altra parte!»
Pasha non replicò. Avrebbe voluto mandarlo al diavolo, ma non ci riuscì. La verità era che non voleva rimanere solo, non voleva essere emarginato.
Pensò di nuovo a suo padre, alle lacrime sul suo volto durante la cerimonia d’offerta dei primogeniti. Pasha sarebbe voluto diventare un vero soldato, con gli alamari d’oro e i mustacchi arricciati, come il tenente.
Ma il tenente era nobile, mentre lui apparteneva alla casta produttiva. Però era di Muskha, il settore amministrativo principale, il più popoloso. E più antico.
Le tribù slaviane avevano raggiunto il pianeta Vostroya millenni prima, agli arbori della storia dell’uomo. Portavano tradizioni e coraggio dalla Vecchia Terra.
Pasha posò la tazza e guardò il caporale, dritto negli occhi.
«Io ho davvero sentito qualcosa.» disse.
Ylia stava per replicare, ma fu interrotto dal rumore del carro. Il bestione si spostò verso di loro. Pasha ne approfittò per cercare solidarietà in Fjodor. Il soldato chiuse uno dei suoi occhi azzurri e sorrise con un angolo della bocca. I baffi danzarono al vento come due vecchie tende.
Ylia si diede una pacca sulla coscia e si alzò: «Hey, buttatela via quella vecchia caffettiera!» urlò ai carristi.
Fjodor si alzò anche lui; Pasha si sentì in dovere di fare lo stesso.
Poi ci fu lo schiocco … e il fischio.
Ylia impugnò il lanciagranate a tamburo, puntandolo in alto. con un calcio, Fjodor rovesciò il caffè sul fuoco. Pasha impugnò il fucile laser.
C’era qualcosa, come un’ombra, sopra le loro teste.
Una granata a frammentazione partì, col rumore di una bottiglia di vino stappata. Impattò contro un plinto e morse il plastacciaio.
Il tamburo dell’arma di Ylia girò, inserendo nella canna un'altra granata.
L’ombra si staccò dal pilastro, calando sui vostroyani come un pugno. Pasha armeggiò col fucile.
L’ombra fece un mezzo giro su se stessa, graffiando con una lama la corazza di plastacciaio di Ylia.
Pasha vide dal mirino la cosa che li stava attaccando: un umanoide alto e magro, una specie di selvaggio dalla pelle verde, con un becco al posto della faccia e un copricapo di piume.
Sentì la voce di Ylia urlare: «Sparategli!» e vide Fjodor allontanarsi di un passo e imbracciare il fucile. Pasha stava per premere il grilletto, quando si ricordò che era stato il becco dell’alieno, e non le labbra di Ylia, a muoversi.
Fjodor sparò, mentre il kroot si abbassava. Il raggio partì dalla bocca del fucile e bruciò il carapace di Ylia. Il magdiano cadde, con l’unico occhio spalancato verso il cielo.
Pasha sentì il boccaporto del carro aprirsi e l’equipaggio urlare. Poi qualcosa gli lacerò le orecchie: l’ombra aveva il becco aperto. Da lei era partito un urlo.
Pasha vide l’alieno stringere un’arma che sembrava un incrocio tra fucile laser e bastone. Sulla canna c’erano due lame ricurve. Non sembrava vibrassero, né avevano un meccanismo a catena come le spade degli ufficiali.
Il kroot fece ruotare l’anca e sferrò a Fjodor un calcio circolare. La rapida contrazione dei muscoli alieni creò un effetto frusta. Gli artigli del piede sinistro graffiarono il viso di Fjodor, portandogli via un occhio e metà naso. Il sangue prese a spruzzare fuori, spinto da una tremenda pressione. Il kroot stava ancora girando come una trottola; completò la manovra con altri due calci e un fendente. Le lame ricurve tagliarono la gola a Fjodor.
Pasha udì una detonazione alle sue spalle. Vide l’alieno gettarsi a terra. Fjodor cadde a peso morto, spruzzando sangue.
Il muskhaviano si girò e scorse l’alto berretto di pelo del comandante del carro spuntare dal boccaporto. La mano del comandante stringeva una pistola requiem. Aveva rischiato d’ammazzarlo! Quell’idiota aveva rischiato di colpire lui invece dell’alieno!
Il kroot fece un salto all’indietro, inarcò la schiena e piroettò su se stesso, stringendo il fucile al petto. Il carrista sparò un altro colpo, bucando la caffettiera.
Pasha si girò, mise il calcio del fucile contro la spalla, inquadrò l’alieno e schiacciò il grilletto. Il kroot iniziò la sua manovra evasiva quand’ancora il soldato non aveva neanche armato il fucile. Fece un salto all’indietro, strinse il fucile al petto, lasciò che il fascio d’energia mortale gli passasse sotto il corpo, quindi s’appoggiò con i piedi al terzo plinto, fletté i muscoli e saltò di nuovo. La sua forza esplosiva lo portò sul quarto plinto, alcuni metri più su. Pasha sparò, mancando il colpo.
Il carrista fece piombare una raffica di tre colpi sul plinto. Pezzi di plastacciaio si sgretolarono come formaggio duro. Pasha indietreggiò, portandosi verso il carro: la sua corazza gli avrebbe offerto protezione dal fucile alieno.
Il cannone al plasma di destra si mosse di qualche grado verso l’alto e rilasciò una scarica d’energia che colpì il pilastro, accendendo un piccolo sole sulla sua superficie.
Il kroot si staccò dal pilastro nel momento stesso in cui questo cedeva, sciolto dal cannone. Vide un colpo di requiem sfiorargli la gamba destra, poi sentì un dolore al piede sinistro.

Il calcio del fucile di Pasha colpì la spalla quando questi premette il grilletto. Il raggio laser bruciò il piede dell’alieno.
Il kroot atterrò sulla corazza del carro e cadde in ginocchio. Si trovò a fissare il comandante e la sua requiem.
L’umano urlò: «Bastardo xeno!» prima di sparargli.
Clic.
Il comandante fissò la requiem scarica per un attimo, prima che le lame aliene gli sfondassero il cranio. Il lobo frontale del suo cervello fu ridotto in pappa e l’occhio sinistro uscì dall’orbita. L’uomo ricadde, scivolando, all’interno del carro.
Il kroot afferrò una delle sue granate e fece per sganciarla. Le piume sul cranio si mossero, avvisandolo del pericolo. Lui fletté i muscoli e si lanciò in alto.
Un raggio laser sfiorò la corazza del carro.
Pasha imprecò e aggirò il bestione, per avere una miglior visuale del nemico.
Il gigantesco dodici valvole, raffreddato ad aria, coprì i passi del muskhaviano col suo borbottio.
Il kroot atterrò sulle macerie, accanto alla squadra del mortaio. Aveva in pugno una granata a frammentazione. La lasciò cadere nella bocca dell’arma e saltò via.
Pasha vide il mortaio fare fumo e sentì un botto. I due serventi imprecarono: «Khek
Il kroot menò un fendente al primo col fucile-bastone. Il vostroyano afferrò il bastone con entrambe le mani, poi si lasciò cadere di schiena e puntò le suole degli stivali sul basso ventre dell’alieno. Fletté le gambe e spinse via il kroot. Poi diede un colpo di reni, piombando sulla creatura con una mossa di ossbohk-vyar. L’avrebbe strangolato col suo stesso fucile, premendoglielo sul pomo d’Adamo (ammesso che l’altro ce l’avesse, un pomo d’Adamo).
E invece trovò una sorpresa: un palmo d’acciaio alieno fra lo sterno e il mento.
Il kroot, velocissimo, era riuscito a liberare il pugnale e a usarlo contro il nemico.
Il sangue del vostroyano gli schizzò sul becco e sugli occhi. Il kroot usò il proprio fucile come una leva, facendo scivolare il pesante corpo umano verso destra.
Le penne sul cranio si tesero. Il kroot alzò la testa e vide qualcosa muoversi sul lato sinistro del carro.
Pasha sentì il colpo del requiem pesante agganciato alla corazza del Demolitore. Dalla torretta del carro spuntò un uomo dell’equipaggio. Stringeva la pistola del comandante, di nuovo carica.

Il kroot fece un salto, mentre un secondo colpo di requiem pesante s’abbatteva contro la postazione mortaio, facendola esplodere e uccidendo l’ultimo servente.
Fece una piroetta in aria, poi sentì un improvviso morso, un dolore, al braccio destro. Il fucile gli si ruppe in mano, spezzato in due da un proiettile requiem. La spalla si aprì come un fiore, le ossa cave si spappolarono, sparandogli schegge nella parte destra del torace.
Il Demolitore fece un balzo in avanti, mandando a vuoto il secondo colpo di pistola requiem. Il rostro investì l’alieno e lo schiacciò contro la superficie di plastacciaio.

ufficiale vostroyano
Pasha, che si trovava di fronte alla parte anteriore sinistra del carro, ora, sentì l’uniforme di lana tirarlo per le gambe. Vide un’ombra superarlo e sentì un tonfo quando lo xeno venne investito dal carro. Si girò, mentre il cappotto gli s’avvolgeva alle gambe. Alzò il fucile.
E si trovò a fissare gli occhi dell’alieno.
Quel selvaggio pieno di amuleti e di penne aveva messo in scacco un’intera squadra. Era lungo, esile: sprizzava una vitalità primordiale sconosciuta ai muskhaviani.
Pasha ne rimase … affascinato.
E si trovò con un lembo di guancia di meno, quando il kroot gli sferrò un calcio.
Dall’alto, il carrista si sporse e fece partire un colpo. Il proiettile impattò sul bordo superiore del rostro, rimbalzando verso l’alto. il berretto di pelo del carrista venne portato via.
Il kroot si artigliò al bordo del rostro con l’unico braccio. Si tirò su, poi diede un colpo di reni.
Tutto questo mentre il Demolitore continuava ad avanzare adagio, inesorabile, come uno stupido bestione.
Quando il braccio del kroot era stato spappolato dal proiettile requiem, la mano era caduta, stringendo il pugnale. Ora esso giaceva a poca distanza dall’artiglio senza vita.
Pasha cadde, tirato per le gambe dal cappotto. Vide il rostro del carro avanzare verso i suoi stivali. Notò il coltello dello xeno, lo sfilò dalla mano, lo prese e diede un colpo di reni. Si alzò a sedere e cominciò a tagliare l’orlo del cappotto. La lana si sfilacciò, liberandogli le gambe.
I muscoli dell’alieno lo spinsero in alto e poi all’indietro, in un grottesco pendolo. Atterrò con le gambe attorno al collo del carrista. Quello cercò di alzare la requiem, ma si trovò bloccato dalla natica dello xeno.
Pasha fece un balzo all’indietro e mise il calcio del fucile contro la spalla. Nel mirino, vide l’artiglio del kroot asportare la faccia al carrista. Qualcosa, un piccolo frammento, schizzò verso il suo fucile.
Schiacciò il grilletto. Clic. L’accumulatore scattò a vuoto. Che diavolo era successo? Forse i cristalli focalizzatori erano difettosi? Aveva ricevuto quell’arma alla cerimonia del reggimento. Gli ufficiali dicevano: «il fucile laser imperiale è un mulo: ha colpi infiniti e resiste a ogni genere di botta!»
Riprovò a schiacciare. C’era qualcosa che faceva resistenza. Qualcosa dietro il grilletto.
Lo xeno aveva aperto la gola al carrista e adesso stava guardando lui. Pasha fece un passo indietro e alzò il fucile. In quel momento, il pezzo di cranio staccatosi dalla faccia del carrista, e incastratosi fra il grilletto e il ponticello del fucile, saltò via.
Il kroot fu colpito al torace. Il raggio di fotoni focalizzati ad alta energia vaporizzò l’amuleto d’ossa in una piccola esplosione. L’alieno perse l’equilibrio, cercò di aggrapparsi al bordo del boccaporto muovendo invano il moncherino destro.
Pasha lo vide cadere giù, nel carro.
Si allontanò e prese di mira la torretta. Avrebbe tanto voluto avere un comunicatore vox, ma l’unico si trovava attaccato alla carcassa di Ylia, vicino alla caffettiera.
Avrebbe dovuto aggirare il carro e fare una corsa. Poi, col vox in pugno (ammesso che non si fosse danneggiato) avrebbe potuto chiedere aiuto.
Ma perché poi?
Lo xeno sembrava solo, forse un cane sciolto o un’avanguardia. C’erano ancora quattro occupanti dentro il Demolitore.
Quattro …
Lo xeno schizzò fuori dal boccaporto come sparato da un cannone. Dietro di lui si udì uno scoppio. Dalla torretta uscì del fumo.
L’artiglio della creatura era vuoto. Gli occhi bianchi si posarono sull’unico umano sopravvissuto.
Pasha rabbrividì. Se avesse preso il vox, avrebbe … ma era inutile piangere ora.
Era solo, contro quella specie d’uccellaccio umanoide, magro e spinoso.
Concetti come impero e umanità non avevano più senso: era la sua vita o quella dell’alieno.
Se fosse morto, come l’avrebbe presa il vecchio? lassù, da solo nel suo appartamento al trecentundicesimo piano, nella città-alveare. Gli sarebbe arrivata una lettera formale in alto gotico con scritto: “vostro figlio ha dato la vita per l’imperium. Gloria!” O qualcosa del genere.
Uccidendo lui, l’alieno avrebbe ammazzato anche suo padre.
Il kroot fece ciò in cui era maestro: saltò.
Pasha decise di non sparargli, perché avrebbe di sicuro mancato il colpo. Quell’essere si era mosso con troppa rapidità.
Il soldato rotolò in avanti, sfruttando una tecnica base di ossbohk-vyar. Gli artigli podali del kroot graffiarono il terreno.
Pasha si alzò, si girò e sferrò un calcio caricandolo dall’interno verso l’esterno. Lo stivale sfiorò il becco dell’alieno. Nello stesso istante, il kroot fece una piroetta ed estroflesse una gamba. Gli artigli strapparono gli alamari dalla divisa rossa. Pasha impugnò subito il fucile come un bastone e colpì dall’alto verso il basso, mentre ancora lo xeno girava. Il calcio scivolò sul collo alieno e atterrò sulla clavicola scheggiata dal proiettile requiem, spaccandola del tutto.
Il kroot perse l’equilibrio e cadde. Pasha gli sferrò un calcio sotto il mento, mandandolo disteso a terra.
Poi, rapido, rigirò il fucile e glielo puntò addosso.
Gli occhi bianchi dello xeno si fissarono su di lui.
Dalla torretta del carro s’alzarono le fiamme.
E ora? Quell’essere stava lì, indifeso. A Pasha sarebbe bastato sfiorare il grilletto (ammesso che non ci si fosse incastrato qualche altro pezzo di cranio).
E invece …
«Mi capisci?» disse.
Le parole sembrarono inghiottite dal crepitio del fuoco.
«Sì, ti capisco.» rispose lo xeno. Aveva … aveva un accento muskhaviano.
«Horosho … » disse Pasha, poco convinto. Si umettò le labbra e poi:
«Sei solo?» chiese.
Il kroot annuì.
«Ma altri arriveranno.» aggiunse.
«Devo avvertire il comando.» mormorò Pasha.
«Niet!» disse l’alieno, prima di attivare la melta. Sarebbe andata bene per un carro.
E il carro, dopotutto, era lì vicino.

L’ultimo pensiero di Pasha andò a suo padre, vecchio, solo, e a quella stupida lettera in alto gotico.
Il kroot, invece, pensò al messaggio che non aveva mai lasciato e, prima di evaporare, fu conscio che nessuno, nessuno avrebbe saputo di quel grande salto.

fine

2 commenti:

  1. La mia conoscenza del mondo di Warhammer 40k è meno che superficiale, ma tu sei riuscito lo stesso a farmi capire tutto senza eccedere nell'infodump. Ho apprezzato il racconto. Ma se i kroot sono tutti così, per l'impero la vedo grigia! ;-)
    Il Moro

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    1. Eheh, pure io la vedo grigia e poi l'impero mi sta tremendamente sulle palle!!!! Il Vale mi ha sempre erudito su warhammer; poi ho letto l'eresia di Horus di Dan Abnett e mi sono venuti gli occhi a cuore!

      Saludos!

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